Riflessioni sullo stato della libertà di espressione nell’attuale contesto informativo.

Il tema, per me assolutamente centrale, del violentissimo attacco in corso alla libertà di espressione, e cioè a quella possibilità fondamentale, riconosciuta a “Tutti” dalla nostra Costituzione all’art. 21, di “esprimere liberamente il proprio pensiero”, può essere negato solo da chi, e sono molti, è fermamente e convintamente impegnato a promuoverlo.
Gli strumenti al riguardo si fanno sempre più sofisticati.
Ha ragione Michael Schelleberger a parlare, con specifico riguardo agli Stati Uniti, di un vero e proprio “Complesso Industriale della Censura”, e come altro potrebbe chiamarsi quello che hanno svelato i cosiddetti TwitterFiles, sulle modalità con cui, durante il periodo segnato dal Covid-19, agenti delle FBI direttamente e dipendenti di Twitter ben istruiti, hanno scientemente e continuamente censurato le opinioni sgradite, anche se provenienti da luminari in materia, come il Prof. Jay Battacharya di Stanford, così come da giornalisti e influencer non allineati?
Del resto, per venire di qui dell’Atlantico, è di questi giorni la notizia che l’operatore YouTube ha censurato un documentario che, semplicemente, mirava ad informare dell’esistenza di una raccolta firme per un referendum contro l’invio delle armi in Ukraina.
In effetti, sono proprio i grandi player del mondo social, in cui si è inserita anche Wikipedia, che da anni intervengono eliminando dalle loro piattaforme i contenuti che non risulterebbero corrispondenti ad imperscrutabili e assai poco chiare “regole della Community”.
Così, ipocritamente, vengono chiamati i dettami che, operatori privati miranti fondamentalmente al guadagno – cosa che troppo spesso ci dimentichiamo che sono -impongono a tutti coloro che decidono di avvalersi delle loro immense capacità comunicative.
Non c’è qui il tempo di parlare dell’inesausta querelle circa il ruolo di editori o meno di questi soggetti che, pure, andrebbe risolta una buona volta per capire come possano o non possano intervenire sui contenuti postati da tutti noi che, in fin dei conti, gli diamo la vita.
C’è da dire, peraltro, che i nuovi moloch, che prendono i nomi altisonanti di “disinformazione” e di “hate speech”, sembrano costituire dei perfetti strumenti utili per l’insopprimibile bisogno che si appalesa in chi governa la nave, di decidere cosa si possa e non si possa dire.
Il tutto, come ovvio, dimenticando volutamente gli strumenti giuridici esistenti, per il vaglio dei contenuti offensivi e gravemente offensivi che sono predisposti per porre un freno agli atteggiamenti effettivamente lesivi di beni oggettivi tutelati: il decoro, l’onore, la reputazione. Del resto l’Italia, è stata anche capace di depenalizzare il reato di abuso della credulità popolare.
Gli stessi ordini professionali, che pure sarebbero tenuti a vigilare sul rispetto dei doveri di verità e di correttezza da parte dei loro iscritti, finiscono per rinunciare al loro ruolo, quando addirittura a proporne un’interpretazione che arriva a sanzionare proprio i comportamenti che si direbbero rispettosi di quei doveri.
E certo permangono i casi di censura “diretta”, come quello interpretato fisicamente da Tucker Carlson, giornalista cacciato da Fox per la sua attività “troppo aggressiva”(?) sulla questione vaccini, che in una delle sue ultime esilaranti interviste, raccontava come il problema non stesse nel fatto di manifestare pazzia, per esempio, andando in televisione sostenendo che la terra è piatta, in quanto la gente riderebbe, diversamente però, se tu provassi a chiedere cosa effettivamente è successo con il Building 7 (e sapete che sto parlando del palazzo crollato l’11 settembre senza risultare colpito da alcun aereo), verresti immediatamente cacciato, perché è una cosa che non si può chiedere.
O ancora come recentemente segnalato dal giornalista statunitense Glenn Greenwald, illustrando un sondaggio Harris-Harward, per cui i cosiddetti Corporate Media (cioè i giganti dell’informazione Usa) non tanto e non solo contestano le opinioni non gradite dei loro cittadini, quanto piuttosto impediscono proprio che tale opinioni vengano riportate.
E tuttavia, il problema è arrivato ad un livello più alto e più grave come, tra gli ultimi, conferma l’articolo di un professore di filosofia della Luiss, recentemente apparso sul quotidiano Domani, dal titolo “Il negazionismo climatico dovrebbe essere un reato”.
Orbene, senza alcun infingimento e su un tema oggetto di un rilevantissimo dibattito, sol che si gratti un minimo la patina di apparente unanimismo che viene diffusa dall’informazione cosiddetta mainstream, ecco affacciarsi alla ribalta il “reato di opinione”.
Non sono qui per richiamare le posizioni di alcuni indiscutibilmente esperti della materia, come il Premio Nobel John Francis Clauser, il Premio Nobel Carlo Rubbia, i Proff. Zichichi, Franco Prodi, Franco Battaglia, Prestininzi e tanti altri per cui mi fermo qui.
Mi interessa, piuttosto, anche in considerazione dello spazio a disposizione, svolgere alcune considerazioni finali su ciò cui si sta assistendo e per far ciò, mi avvarrò delle per me ottime parole di una firma del giornalismo italiano protetta dallo pseudonimo di: Bonifacio Castellane.
“Quando le tue battaglie politiche e ideologiche non si basano più su convinzioni radicate, bensì su dogmi, stai implicitamente rinunciando alla società civile per dare vita alla guerra civile…quando non puoi più basare il confronto sul dibattito…devi ricorrere alla forza. Come in tutti i totalitarismi, devi sanzionare i dissidenti, devi rieducarli, devi estrometterli dalla società”.
Ecco, per opporsi a questo pericolo a questa deriva nella quale siamo già inseriti, la strada che mi sento assolutamente di condividere è quella di chiedere, se non proprio di pretendere, che, a livello europeo, si adotti quanto prima un provvedimento normativo che sia chiarissimo nel vietare espressamente la censura e il reato di opinione.
Sarà o è il Digital Service Act questo provvedimento?
A leggere le recenti polemiche tra la Commissione Europea e Elon Musk, in relazione a certe posizioni assunte su twitter, non sembrerebbe, tuttavia, abbiamo già imparato che in certi atti normativi europei è scritto qualcosa che poi, però, anche gli stessi estensori illustrano in senso non conforme, quando non è direttamente la stampa a farlo.
Occorrerà, allora, grande attenzione e serietà nello scrutinio di questo provvedimento.

Gianfrancesco Vecchio

Comunicazione presentata al Convegno “La libertà di manifestazione del pensiero nell’esperienza costituzionale contemporanea” tenutosi presso l’Università di Cassino l’8 giugno 2023

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